Tlin. Le porte dell’ascensore si aprirono. Nella sua mente riecheggiavano ancora i complimenti ricevuti per la splendida arringa del pomeriggio. Giò entrò in casa, tolse i tacchi e sciolse i capelli. Come ogni sera, nessuno era lì a guardare i suoi ricci caderle sulle spalle. Aprì il frigorifero e come sempre era pressoché vuoto. Sul tavolo i resti della colazione avrebbero potuto essere anche la cena. Si versò una tazza di cereali e iniziò a sgranocchiarli. Il rumore dei cereali tra i denti rompeva il silenzio della stanza. Ascoltò i messaggi in segreteria: due di sua madre “Stai bene? Vieni per cena?” Li ignorò. Il terzo era dello studio: “Un nuovo caso. 35 anni, donna, accusata di omicidio. Bella sfida, dottoressa, sarai capace di farla assolvere?”
La voce della segretaria degli avvocati Meyer & Co. aveva un non so che di sfida. “Certo che lo vincerò questo caso. Cosa vuoi che sia” pensò Giò lasciando la tazza mezza vuota accanto al telefono e sdraiandosi sul divano.
Si mise a leggere “Anatomy of a murder” di Robert Traver. L’infermità mentale come via di fuga in caso di crimine: una pietra miliare per gli avvocati, secondo la sua modesta opinione. Si svegliò verso le tre del mattino. “Tanto vale stare qui” pensò. Allungò le gambe, si mise su un fianco e riprese a dormire.
Il mattino seguente di buon ora era già alla sua scrivania. Melanie le aveva lasciato tutti i documenti del caso. Il biglietto sopra il plico diceva “Alla dott.ssa Martini. In bocca al lupo”.
Giò si sentiva quasi presa in giro. Un avvocato di successo come lei perché diamine non avrebbe dovuto risolvere anche questo caso?
Cercò subito i documenti con le specifiche della vittima. Donna, afroamericana, cassiera di uno dei supermercati della catena Walmart. É stata trovata accoltellata nel suo appartamento, in Bergenline Ave. Viveva sola, ma aveva una relazione con Albert Twice, marito dell’imputata. Dalle fotografie riportate nel dossier, era una donna molto affascinante.
“Un banalissimo delitto passionale.” si disse. Ripensando al romanzo della sera precedente la soluzione era ovvia, avrebbe richiesto l’infermità mentale. Qualche anno in un ospedale psichiatrico e la sua cliente avrebbe potuto benissimo ricostruirsi una vita.
Bussarono alla porta, era Mark, un collega specializzato in diritto di famiglia. Giò lo stimava molto: passare le giornate tra separazioni, divorzi, adultéri e figli da affidare non era di certo facile. “Buongiorno Giò. Vuoi un caffè?”
“Ciao Mark. No grazie, sono di corsa. Mi aspetta una nuova cliente e devo correre al carcere di Rikers Island.” Raccolse di corsa tutti i documenti, prese la giacca e si precipitò in strada alla ricerca di un taxi.
Dopo tutti i controlli di routine, era finalmente entrata. La sua cliente sedeva ad un piccolo tavolino al centro della stanza. La tradizionale divisa arancione faceva risaltare ancor di più i suoi occhi azzurri. I capelli biondi erano raccolti da un laccio dietro la nuca.
“Buongiorno signora Robson” disse Giò.
“Buongiorno” rispose lei cordialmente. Seguì un lungo silenzio. Giò la stava osservando, cercava di captare qualcosa che la aiutasse a far crollare l’accusa, qualche sottigliezza che la supportasse nel reggere la sua tesi di infermità mentale dovuta al forte stress per aver scoperto l’adulterio del marito, ma la sua cliente era tranquilla, nulla che desse segno di qualche disagio a livello psicologico.
La guardò negli occhi “Non si preoccupi. Il processo sarà lungo, ma sono sicura che riusciremo a farla uscire da qui”.
“Non mi interessano le sue frasi di convenienza” rispose “ io l’ho uccisa, ed è giusto che paghi per questo”.
“Come, scusi?” chiese Giò sbalordita.
“Non mi interessa uscire di prigione, le ho detto” ribadì la signora Robson.
“Rischia la pena di morte, ne è consapevole?”
Annuì.
Giò, incredula, per la prima volta sentì le sue certezze vacillare. Non poteva gettare la spugna in questo modo, certo è che un’ammissione di colpa non è facile da distruggere davanti alla giuria. Cercò di prendere tempo, fece alcune delle solite domande alla signora Robson: da quanto conosceva la vittima, dove l’aveva incontrata la prima volta, quando aveva scoperto la relazione tra lei e il marito.
Il tempo per il colloquio era finito. Giò si alzò. Era sua abitudine rassicurare i clienti prima di andarsene, promettere che sarebbe tornata presto, che li avrebbe fatti uscire. In quel momento però non trovava le parole.
“Non si preoccupi, sto bene qui. Ci vediamo al processo”
La signora Robson le strinse la mano e si girò, tornando silenziosamente nella sua cella.
“No, no, e poi no. Non mi gioco la carriera per una stupida assassina gelosa” nel taxi che la riportava in ufficio Giò stava diventando rossa di rabbia. Perché mai Mr Meyer le aveva affidato quel caso? A un avvocato come lei, che era in grado di togliere di prigione chiunque ammaliando giuria e giudice e trovando anche un ago in un pagliaio pur di far crollare l’accusa. Perché l’aveva punita con un caso perso in partenza? Un’unica risposta le ronzava in testa: voleva rovinarle la carriera.
Pagò il taxi di corsa, salì le scale, entrò nello studio senza salutare nessuno e sbatté la porta dell’ufficio dietro di sé. Tolse dalla borsa tutti i documenti del caso e iniziò a leggerli uno ad uno. I colpi erano stati inferti dall’alto verso il basso. La signora Robson non era molto alta, e di sicuro meno alta della vittima. La forza stimata era quella di un uomo abituato a fare sforzo fisico. La signora Robson era di corporatura gracile, a suo avviso faceva fatica anche a tagliare il tacchino il giorno del ringraziamento, figuriamoci a infliggere 27 colpi. L’ora della morte era stimata tra le 12 e le 14, ma la signora Robson lavorava fino alle 13 a tre isolati dalla casa della vittima e non era stato registrato nessun permesso di uscita anticipata, anche se lei sosteneva di essersi assentata alle 11 per un’emicrania, essere andata a casa della vittima e averla accoltellata alle spalle.
“Caffè?” Mark interruppe i suoi pensieri.
“No grazie, ho iniziato un nuovo caso e sto riorganizzando le idee”.
“Il caso della moglie assassina? Ne ho sentito parlare in corridoio. Se vuoi una mano chiedi pure, io sono un grande esperto di tradimenti e divisione dei beni. In genere le donne bianche chiedono di tenere il cane. La tua cliente ha un cane?”
“Non scherzare Mark, lasciami lavorare” lo liquidò Giò e tornò alle sue scartoffie.
“Si sieda dottoressa” Il giudice Smith era appena rientrato nel suo ufficio ed era pronto ad un colloquio con Giò per valutare come muoversi. Non che ci fosse molto da fare, con una dichiarazione di colpevolezza in mano la soluzione che avrebbero proposto sarebbe stata sicuramente un processo breve, con una pena all’ergastolo, ma senza pena di morte data la collaborazione da parte dell’imputata.
“Lei non è convinta, vero?” Giò scosse la testa. “Nemmeno io” replicò.
“Spesso non conta ciò che diciamo, ma ciò che realmente facciamo”.
Il giudice la guardò. Annuì. Iniziò a leggere i documenti della scientifica che erano sulla sua scrivania.
“E’ mai stata innamorata, dottoressa?”
“Cosa vuole dire, signore”
“Nulla, mi chiedevo solamente se anche lei avesse provato ciò che potrebbe aver provato la sua cliente”
Giò si mise sulla difensiva “Non sono una donna possessiva”
Il giudice scoppiò in una fragorosa risata. “Ha ragione. Stiamo parlando di relazioni umane, non della sua toga.“
Il giudice si alzò e posò tutti i documenti sulla cassettiera alle sue spalle. Guardò Giò e disse “ Le dò due giorni.”
“Grazie signor giudice”. Giò uscì e si precipitò giù dalle scale per non perdere nemmeno un minuto.
In ufficio l’aspettava il marito della vittima, il signor Albert Twice. Era un uomo alto e robusto, che lavorava come trasportatore per la stessa catena di supermercati dove lavorava la sua amante. L’aveva conosciuta tre anni prima ed era subito scoppiata la scintilla. Non sembrava minimamente scosso né per la morte dell’amante né per l’arresto della moglie, ma rassegnato non era il termine esatto per descrivere le sue emozioni. Si esprimeva in modo freddo e distaccato, centellinando ogni singola parola e confermando in toto la teoria della signora Robson. Quando il loro colloquio finì il signor Twice concluse dicendo “Ho fiducia nella giustizia, spero che mia moglie paghi per quello che ha fatto” e se ne andò.
Finalmente un po’ d’aria. D’estate, quando il sole batte sulle finestre e nello studio l’aria condizionata veniva accesa più del necessario, l’unica cosa di cui aveva bisogno era una boccata d’aria. Giò aveva lasciato in ufficio tutti i suoi pensieri, le sue arringhe, e l’unica cosa che le serviva era un po’ di svago in Central Park. Iniziò a correre, un passo dopo l’altro sentiva di lasciare dietro di sé le prove, i testimoni, i casi, gli imputati, ma non lei, la signora Robson. Non riusciva a scordarla. In ogni caso che aveva seguito il suo compito era quello di far uscire qualcuno di pigione. Questa volta invece le veniva chiesto l’esatto contrario: quella donna voleva essere incastrata.
Il caldo del tardo pomeriggio aveva in fretta soppiantato la frescura dell’aria condizionata, ma Giò continuava a correre, cercando di trovare una spiegazione nel ricordo del suo primo colloquio con la signora Robson e nei suoi profondi occhi azzurri. Si fermò per riprendere fiato. Non lontano da lei una coppia di giovani amanti si abbracciava con aria complice. In quel momento tutto le fu chiaro.
“Mark, ho bisogno del tuo aiuto” dall’altra parte del telefono Mark riconobbe subito la voce di Giò e per poco non si mise ad urlare per la gioia.
“Come posso io, piccolo avvocato civilista, aiutare la regina del foro?”
“ Smettila di dire sciocchezze. Ti va se domani fissiamo un appuntamento per le 10 in ufficio?”
“E se facessimo alle 9 per un caffè?”
“D’accordo. A domani e… grazie”
“A domani dottoressa”. Mark riattaccò la cornetta e per un attimo sentì che i suoi piedi si erano staccati da terra per un istante.
“I casi sono due: o l’amore non è finito, e quindi io sono solo un bravo psicologo che li aiuta a rimettersi insieme, oppure uno dei due si è davvero stancato. In questo caso marito e moglie si trasformano diventando uno il carnefice, freddo e cinico, disposto a tutto pur di andarsene, e l’altro vittima, disposto a tutto pur di far felice il compagno del quale è ancora follemente innamorato. Strano, vero? Chi in realtà dovrebbe essere furioso per la richiesta di divorzio diventa una pecorella che rinuncerebbe alla sua vita pur di vedere l’altro felice”. Mark bevve un sorso di caffè.
Giò si illuminò: vittima disposta a tutto pur di vedere il suo carnefice libero. E se le vittime fossero due e il carnefice lo stesso? Mark le aveva dato la chiave sulla quale reggere la sua difesa e riuscire anche questa volta a vincere il caso.
Il caffè era finito. I biscotti pure. Giò aveva ottenuto l’aiuto di cui aveva bisogno. Vedersi per un caffè significa bere un caffè insieme, no? Eppure una forza irrefrenabile la spingeva ad ordinare ancora da bere. Nel suo stomaco si era formato un vuoto che i biscotti non sarebbero riusciti a saziare. Mark la guardava con aria interrogativa. “Giò qualcosa non è chiaro? Ti vedo perplessa. L’amore è una cosa strana concordo. Vuoi ancora un caffè?”
Giò lo guardò e di colpo si accorse come anche Mark avesse dei bellissimi occhi azzurri dai quali trapelava amore. Non lo aveva mai notato prima. In fondo era un avvocato molto competente, ma anche un ragazzo carino e simpatico, con una strana mania per i caffé e uno strano senso dell’umorismo.
“No scusa, devo andare in tribunale. Oggi ho la prima udienza. Ci vediamo dopo per il secondo caffè?”
Mark la guardò allibito. La dottoressa Martini gli stava chiedendo di vedersi per un caffè. “In bocca al lupo”, furono le uniche parole che riuscì a pronunciare mentre Giò usciva di corsa.
“In Center Street, grazie”. Giò entrò di corsa e sbatté la porta del taxi. Il tassista mise la freccia e innescò la marcia. “faccia presto per favore”.
Giò iniziò a guardare le insegne dei locali che scorrevano fuori dal finestrino: Moonbar, il 127, il Clap. Il Clap. Tre anni prima aveva seguito un caso di spaccio di droga proprio in quel locale. Uno dei due accusati era il figlio di una ricca famiglia del Texas e giocando sulla giovane età dei ragazzi era riuscita a farli scarcerare. Per lei era stato un bel caso: la Meyer l’aveva ammessa tra i suoi avvocati più brillanti e da lì la sua carriera aveva preso il volo. Poco importa se ora il giovane si faceva ancora di crack.
“Siamo arrivati”. La voce del tassista la riportò alla realtà. La gradinata del tribunale era lì, davanti a lei. Ai tempi del caso Clap la saliva dal lato destro, timidamente. Quel giorno salì passando dai gradini centrali, sicura di sè come non mai. Aveva trovato la soluzione anche a questo caso.
